Architetto, professore ordinario di Disegno Industriale, quintessenza del design italiano e tra le più influenti personalità nel panorama moderno. E ancora, esperto e divulgatore dalle conoscenze così profonde da essere sua la definizione del termine “nautica” nell’Enciclopedia Treccani. A dispetto delle tante stellette che guarniscono il suo curriculum, Andrea Vallicelli
Architetto, professore ordinario di Disegno Industriale, quintessenza del design italiano e tra le più influenti personalità nel panorama moderno. E ancora, esperto e divulgatore dalle conoscenze così profonde da essere sua la definizione del termine “nautica” nell’Enciclopedia Treccani. A dispetto delle tante stellette che guarniscono il suo curriculum, Andrea Vallicelli conserva quella freschezza e ironia tipica di chi sa ma non se ne vanta, e in poco più di un’ora di chiacchierata racconta storie, accende idee e rende possibile pensare in grande come a bordo delle barche che nascono dalla sua matita e danno forma a uno stile proprio, elegante e decisamente senza confini.
Lui e Alessandro Nazareth, che è ingegnere, sono i soci di quello che, in Italia, è considerato non solo un punto di riferimento per lo yacht design in genere, ma anche per il mondo della vela. Non a caso, Nazareth è Chairman dell’International Technical Committee (ITC) dell’Offshore racing Congress (ORC), l’organismo internazionale per la vela da regata offshore responsabile di stabilire e mantenere aggiornate le regole di rating per categorie ad handicap delle imbarcazioni da regata in mare aperto. Barche del calibro di Azzurra e Brava, ma anche alcuni dei One Ton più vincenti di sempre, sono firmate dal loro studio.
Chi è oggi Andrea Vallicelli?
“Racconto la mia storia attraverso lo studio e la sua trasformazione in vent’anni. Ci occupiamo di barche a motore per l’industria e progettiamo sia prodotti di serie che prototipi da 15m a 80-90m. Siamo ancora appassionati di vela, ma per rimanere in linea con il mercato questo non è più il nostro core business”.
Nasce designer di barche a vela e oggi è figura di spicco nel motore, in particolare nel settore grandi yacht. Quali sono i contributi dalla sua precedente esperienza?
«Direi una certa sensibilità o attenzione alle relazioni formali e stilistiche che le barche a vela hanno con il contesto in cui si muovono, a me piace definirla armonia di forme. Vela e motore sono generi diversi a livello dimensionale e per le soluzioni morfologiche legate agli aspetti propulsivi. Quello che ha caratterizzato la mia professione quando ho iniziato con la progettazione di imbarcazioni a vela, soprattutto sportive e da regata, è un richiamo a un’essenzialità morfologica che le barche hanno per ragioni prestazionali. Questo rigore formale è la relazione non solo armonica con il contesto, ma anche una consonanza di proporzioni all’interno del progetto stesso. Non vorrei esagerare, però il trasferimento di repertori formali originati dall’architettura, dal design industriale o anche dall’automotive e da settori affini non è sempre trasferibile alla nautica da diporto».
Un esempio pratico di rigore formale?
«Il rigore è un principio teorico, anche un po’ astratto che ha a che fare con i rapporti, le proporzioni tra i volumi. Se stilisticamente mi riferisco a barche che hanno avuto una certa visibilità, per esempio Okto (del cantiere ISA Yacht, lungo 66,4 metri), una barca che abbiamo disegnato con forme originali, troviamo un suo particolare rigore in una forma che potrebbe sembrare differente rispetto a quella di altri esemplari che abbiamo ideato per la serie grande di ISA Yacht come il Silver Wind (43 metri), o alla forma di Infinite Jest (75 metri) o Roe (73,6 metri) per il cantiere turco Turquoise Yachts. Sembrano orientate su soluzioni stilistiche diverse, ma in realtà tutte rispettano delle proporzioni, dei rapporti fra il degradare dei volumi dei ponti superiori nella parte anteriore o posteriore rispetto alle forme dello scafo. Più che parlare di soluzioni che le distinguono, per esempio Okto aveva una cornice che da poppa, decorativamente si abbracciava, tagliava diagonalmente i ponti e poi si legava sulla forma del tettuccio a prua, soluzioni che appartengono agli aspetti più calligrafici del progetto, bisogna guardare ai volumi legati da specifici rapporti, a una certa relazione tra le masse delle sovrastrutture e quelle dello scafo».
La tendenza degli ultimi anni è quella di rendere il design degli yacht sempre più simile a quello di una casa in mare.
«Credo che la relazione tra contesto e oggetto sia importante dal punto di vista delle scelte linguistiche e non può essere trascurabile anche quando ci non riferiamo solo a un rapporto tra artificiale e naturale. Una villa al mare ha forme che non si possono trasferire in una casa di montagna anche se entrambe hanno tetto e finestre. Parlando di rapporti tra soluzioni morfologiche, anche geometricamente astratte o rigide, e il contesto ambientale, la casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright, icona del Novecento, è la dimostrazione che ogni progetto fa i conti anche con la storia, altrimenti non avrebbe valenze estetiche riconoscibili. Così il contesto nautico con la sua storia, ha una sua cultura non prescindibile. Ma oggi i confini tra le forme tipiche del prodotto industriale e quelli dell’architettura si sono fusi e contaminati a vicenda come negli interni dello yacht design, tanto che alcuni ambienti potrebbero trovarsi indifferentemente in una barca come in un hotel. Detto molto francamente, se può essere comprensibile non è accettabile».
Come vedi la presenza di designer non nautici nella progettazione di yacht?
«Una spiegazione culturale non c’è. Sono fenomeni commerciali, migrazioni che accadono soprattutto in un panorama di globalizzazione e che a volte possono portare ad arricchimenti. Non si può negare che un professionista formato in un altro settore possa portare valore. Un designer poliedrico e geniale come Philip Starck, ad esempio, con il quale ho collaborato nel progetto di una barca a vela (un fast cruiser di 80 piedi), pur non essendo uno specialista del settore ha comunque fornito una cooperazione molto importante. Se sugli esterni i trasferimenti da esperti extra settore sono pochi, negli interni invece la tendenza è frequente. È un campo che fatalmente si presta bene, soprattutto a bordo dei grandi yacht dove si possono separare, a mio parere in maniera non accettabile, le forme esterne dalle volumetrie interne e realizzare quello che si farebbe in una casa al mare o a St. Moritz dando vita a una sorta di international style rassicurante per il cliente».
Cosa cambia tra lavorare per un cantiere navale o per un armatore?
«Sono due mondi diversi con un elemento comune. Tutti i libri di architettura ci insegnano che “dove c’è un architetto importante c’è anche un principe importante”. Nessuno inventa un progetto senza un destinatario. Nell’industria, prima di arrivare alla formulazione del brief, ci si confronta con una pluralità di soggetti: un responsabile del brand, un direttore marketing, che a volte è anche direttore commerciale o l’imprenditore stesso, fatto frequente nella nautica viste le dimensioni del settore non paragonabili a quelle di altri contesti. Con l’armatore, quelle figure sono tutte ricomprese nella domanda che egli pone. Sono fondamentali esperienza, sensibilità e anche la sua capacità di visione. Un esempio, quando abbiamo realizzato il refitting di Genesia, un supply vessel di 40 metri, l’armatore Carlo Perrone ci chiese un’imbarcazione che definì industrial chic, in effetti era un supply vessel trasformato in barca da diporto. Lo stimolo è quindi scaturito dalla domanda posta dal proprietario, la soluzione progettuale dalla nostra competenza».
Cosa manca alla vela per affermarsi sul mercato in un momento in cui si parla di sostenibilità?
«Ci sarebbero tutti i presupposti, ma non succede nonostante una maggiore sensibilità all’ambiente. Le barche a vela dovrebbero avere una fortuna commerciale preponderante, per lo meno in prospettiva. È una delle grandi contraddizioni dei nostri tempi, vedo piuttosto una crescita dell’attenzione alla sostenibilità nel campo delle barche a motore e, come nell’automotive, sempre più cantieri sono impegnati nella realizzazione di yacht a propulsione ibrida».
Marta Gasparini